lunedì 12 maggio 2014

Vi inviamo un primo contributo alle riflessioni preliminari su “Arte e Stato” di Raffaele Gavarro.
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Le ragioni per le quali non possiamo ancora dirci europei e forse nemmeno più italiani


Naturalmente le ragioni per le quali non possiamo ancora dirci europei sono molte: da quelle etiche generali, a quelle politiche e amministrative, e in senso più ampio burocratiche, fino all’organizzazione della scuola e dell’università, come quelle relative alla cosiddetta amministrazione della giustizia.
Non ultima, in questo elenco, è lo Stato di eccezionalità e marginalità a cui è destinata, nel nostro Paese, la cultura contemporanea e l’Arte visiva nello specifico. Un posto che appare ogni giorno più di confino, e che è la più decisa, quanto meno visibile (forse), ragione della nostra sempre più grande lontananza tanto dal presente degli altri paesi europei, quanto dalla nostra storia. Proprio quest’ultima è la ragione per la quale appunto non possiamo nemmeno più dirci italiani, almeno nella continuità di un passato che ha fatto della cultura, di volta in volta contemporanea, il carattere emblematico della nostra storia. E questo per secoli fino, e incredibilmente, al ventennio fascista.
Qualcosa è infatti cambiato in modo drammatico nel rapporto tra Arte e Stato subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e con la riorganizzazione dello Stato democratico. Proprio quando le condizioni politiche e sociali, interne allo Stato e internazionali, dovevano favorire e godere di un’ancora più necessaria sincronia, si è perso il senso di questa necessità. A ben vedere si tratta di un paradosso davvero difficile da comprendere nelle cause, anche se chiarissimo nelle conseguenze. Cos’è che ha determinato questa sconnessione? Forse l’incapacità di tenere insieme tutti gli aspetti determinati dal nuovo sviluppo economico, con i conseguenti cambiamenti sociali e insieme ad un’organizzazione democratica mai veramente compiuta, che tra poteri visibili e invisibili, sempre particolari, ha smarrito il senso di una visione ampia e complessa? Molto probabile. Anche se quello che appare oggi più che mai decisivo in questa perdita di contatto, è la nostra evidente difficoltà a riconoscere gli elementi della nostra attuale identità, alla quale fatalmente non riesce a dare sufficiente soccorso una tradizione che appare svuotata sempre più di forza, proprio perché avvertita come un passato senza continuità nel presente.
Ma veniamo al punto e davvero all’oggi. Quanto detto sta facendo da retroterra, background si direbbe, ad un affannoso e apparentemente logico progetto di riposizionamento, da parte dello Stato, della nostra “contemporaneità culturale” sul versante della rendita finanziaria e commerciale. Per dirla con Horkheimer e Adorno, e in ritardo di circa settant’anni, si tratta di dare forma concreta e redditizia all’ “industria culturale”, ma non come sarebbe immaginabile a quella propriamente contemporanea, quanto invece a quella del mitico passato da meglio sfruttare con un turismo che s’immagina ben più che di massa. Essere quindi contemporanei, culturalmente in primis, per lo Stato attuale, è dare finalmente una forma aziendale e un’organizzazione manageriale ai beni culturali. In altre parole, il nostro “petrolio” ha bisogno di un raffinamento e di una rete di distribuzione che sia appunto in linea con i sistemi contemporanei e che ci permetta di competere sulla scena economica internazionale con un “nuovo” prodotto.
Oltre i limiti facilmente individuabili di una riduzione alla sfera commerciale della complessità storico-scientifica dei beni culturali nazionali, e dando per scontato la necessità di un loro efficientamento organizzativo e gestionale, quello che colpisce è l’integrazione tout court del concetto di contemporaneità al modello produttivo-finanziario. Come immaginare che sia possibile integrare in questa visione il tempo e il prodotto non sempre spendibile della ricerca di chi realizza un bene culturale contemporaneo? Un’impossibilità che impedisce una vera comprensione delle modalità di sviluppo di un ben altro sistema internazionale, tanto privato che degli Stati, che invece intorno alla ricerca e alla produzione contemporanea concretizza un businnes, che è però il diretto risultato di una reale consapevolezza culturale.
Siamo così in una grave e inedita condizione d’impasse, che dallo Stato centrale si è diffusa agli enti locali, e che sta creando cortocircuiti negativi tanto nella gestione dei beni culturali antichi che in quelli contemporanei, e che per entrambi non potrà che comportare un decadimento fisico e di senso.  
E proprio in questo deterioramento c’è la ragione della sempre maggiore distanza dagli altri e da noi stessi.

Raffaele Gavarro



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